Idee, spunti e indicazioni dal deserto israeliano del Negev, dove lavora il ricercatore Aaron Fait
Chi conosce il mondo del vino, non solo da tecnico ma anche da amatore, lo sa: per decenni si è detto che la vite, quella che coltiviamo per ottenere uva destinata a essere trasformata in vino, dà buoni frutti se messa alle strette sul fronte idrico. In altre parole, se trova poca acqua nel terreno. In realtà la scienza e la pratica hanno sempre saputo che questo può essere vero, ma con le dovute eccezioni e i distinguo, che hanno a che vedere soprattutto col momento della stagione di maturazione in cui la vite sperimenta l’eventuale stress idrico. Il cambio climatico è intervenuto a complicare ulteriormente il quadro: lunghi periodi di siccità alternati a eventi piovosi violenti e di breve durata stanno diventando la regola in molte zone viticole, certamente non solo in Italia. Questo ha riflessi sulla quantità e la qualità delle uve raccolte. Difficilmente la situazione cambierà in tempi brevi. Occorre mettere in atto contromisure efficaci, basate sulla sperimentazione e la conoscenza che ne deriva. Da quasi vent’anni il ricercatore italo-israeliano Aaron Fait (in foto) studia il comportamento della vite in un ambiente d’eccezione: il deserto del Negev in Israele.
“Sono giunto nel 2008 all’Istituto Jacob Blaustein per gli studi sul deserto dell’Università Ben-Gurion del Negev, dopo un’esperienza di post dottorato di ricerca in Germania, al Max Planck Institut, dove mi sono specializzato in biochimica vegetale, soprattutto in quelle scienze e tecnologie che nel loro insieme vengono definite Systems Biology: metabolomica, transcrittomica e proteomica. Esse si focalizzano sullo studio della biologia della pianta in maniera olistica e in relazione con l’ambiente e il clima, con gli stress biotici e quelli abiotici”, racconta Aaron Fait.
Fino a quel momento Fait aveva lavorato soprattutto su piante modello per la biologia come il pomodoro o l’Arabidopsis. Poi, 14 anni fa, una visita in Israele da parte di un noto produttore piemontese, le degustazioni presso le aziende israeliane che avevano cominciato da poco a produrre vino sull’altopiano del Negev e la constatazione del fatto che c’erano le potenzialità per fare vini di qualità, ma mancava ancora tanto know how per fare viticoltura in un ambiente così estremo. “Fu allora – racconta Fait – che iniziai a prendere sul serio l’idea di integrare le mie skills nelle scienze “omiche” con le conoscenze dei colleghi agronomi e fisiologi e per sviluppare una viticoltura customizzata all’ambiente arido”.
“Nel deserto del Negev – prosegue Fait – cadono meno di 90 mm di pioggia all’anno: in altezza, un bicchiere scarso. Ma nonostante questo già i Nabatei (antico popolo nomade proveniente dalla penisola arabica, famoso per essere stato una potenza dal punto di vista commerciale, n.d.r.) tra il IV secolo a.C. e il I d.C. qui coltivavano la vite”. Come ci riuscivano? “L’altopiano del Negev – spiega Fait – è un deserto a forte componente argillosa, per cui assorbe l’acqua molto lentamente ma una volta assorbita la trattiene a lungo. Per questo nell’antichità i Nabatei coltivavano la vite su terrazze: le rare piogge scivolavano lungo i pendii, ma quando raggiungevano il terrazzamento si fermavano, venivano assorbite lentamente e poi trattenute per settimane. Oltre a ciò, essi scavavano nel terreno cisterne di raccolta delle acque piovane, molte delle quali esistono ancora oggi. I Nabatei avviarono dunque una viticoltura fiorente, che fu poi ulteriormente espansa durante l’impero ebraico e quello bizantino”.
Se dunque nel passato i Nabatei avevano capito quali tecniche colturali utilizzare per gestire le condizioni estreme del deserto, nel XXI secolo occorreva capire quale know how dare ai viticoltori che, a partire dagli anni 2000, avevano ricominciato a impiantare vigneti sull’altopiano del Negev, spinti sia da incentivi governativi, sia da una certa inclinazione a voler fare viticoltura “eroica”. “Quando iniziai ad analizzare la situazione – racconta Fait – mi apparvero subito chiare due cose. La prima era che i viticoltori pensavano di poter utilizzare anche nel deserto le tecniche colturali adottate nel Nord del Paese, in particolare le forme di allevamento in parete, che però esponevano eccessivamente i grappoli alle alte temperature e al rischio di scottature. La seconda era che tra un viticoltore e l’altro esistevano differenze abissali nell’uso dell’acqua in vigneto”.
“Io e il mio gruppo di ricerca cominciammo allora a lavorare per lo sviluppo di un protocollo di coltivazione della vite in ambiente desertico, che da subito però si rivelò utile anche per venire in aiuto alle regioni viticole messe alla prova dal cambio climatico”. Proprio in quel periodo era nata una collaborazione tra l’Università Ben-Gurion e quella di Udine. In Friuli Venezia-Giulia, infatti, i primi scossoni climatici avevano fatto collassare piante di Friulano (Tocai) e ridotto fortemente la qualità di altre uve coltivate in regione. I ricercatori dei due centri intravidero l’opportunità di utilizzare l’altopiano del Negev come un laboratorio-modello da cui trarre indicazioni sia per la viticoltura locale, sia per quella di areali anche molto lontani, ma sottoposti a fenomeni climatici estremi. “Iniziammo pertanto – spiega Fait – una serie di esperimenti sul water deficit, su Merlot in Friuli e su Cabernet e Syrah da noi, coinvolgendo anche Netafim, il colosso israeliano degli impianti di irrigazione a goccia”. Si partì da vitigni rossi, i più coltivati allora in Israele, e internazionali, perché sul mercato israeliano erano (e sono) quelli più apprezzati dal consumatore medio.
Gli esperimenti condotti su queste varietà prevedevano test sia in campo che in vaso, nei quali alle viti venivano somministrati quantitativi di acqua decrescenti, fino a portarle al 50% del loro fabbisogno idrico (in campo) o a privarle completamente di acqua (in vaso). In quest’ultimo caso, una volta sospesa la somministrazione di acqua, si seguiva il comportamento della pianta per una trentina di giorni, dal punto di vista fisiologico e metabolico. “Quello che abbiamo visto – spiega Fait – è che la Syrah ha continuato a crescere senza grosse modifiche nella sua fisiologia. Questo perché è una varietà a tendenza anisoidrica, cioè che non controlla immediatamente i suoi stomi in caso di siccità. Le piante continuavano a crescere, ma a un certo punto, dopo 30 giorni, collassavano. Il Cabernet sauvignon al contrario, varietà a tendenza isoidrica, a un certo punto smetteva di crescere perché chiudeva gli stomi, per poi ricominciare nel momento in cui riprendevamo a irrigare, trenta giorni dopo”. Ma dal punto di vista della qualità delle uve le cose si facevano più complesse. “A livello di foglia e frutto, la Syrah risultava pagare in termini di metabolismo secondario lo sforzo fatto per continuare a crescere, diversamente dal Cabernet sauvignon, dove gli squilibri metabolici erano molto più contenuti. Questo, anche sulla base di studi di trascrittomica compiuti in Italia, all’Università di Verona, da Mario Pezzotti, ci porta a dire che il Cabernet sauvignon è una varietà più stabile in caso di siccità, quasi più “noiosa”, mentre la Syrah è molto più reattiva, e per continuare a crescere anche in condizioni di stress idrico estremo attiva tutta una serie di meccanismi cellulari di difesa. Cosa ne deduciamo? Nell’attuale quadro di cambio climatico, le varietà a tendenza anisoidrica, come la Syrah, possono essere più imprevedibili e difficili da gestire dal punto di vista della qualità del frutto”.
Dunque, affermare che la vite è in grado di produrre sempre e comunque in condizioni siccitose è riduttivo e semplifica un tema in realtà complesso. Ci sono situazioni nelle quali occorre irrigare per non minare la qualità delle uve o addirittura per salvaguardare la vita della pianta. E allora sorgono almeno due quesiti a cui rispondere: quanto irrigare? Con quale acqua? Dato per assodato che in viticoltura il metodo irriguo attualmente più diffuso e accettato come “qualitativo” sia quello a goccia, bisogna riflettere anche sul fatto che l’acqua dolce sta diventando una risorsa sempre più rara e contesa tra i vari utilizzi, di cui quello agricolo è solo uno. “In Israele – sottolinea Fait – oggi l’agricoltura utilizza per l’85% acqua riciclata dalle municipalità e dalle industrie, senza dunque esercitare pressione sui bacini di acqua potabile. Israele è primo al mondo, seguito dalla Spagna ma molto a distanza, per il reimpiego di queste tipologie di acque: ne ricicliamo circa il 70%, grazie a tecnologie particolarmente efficienti per la depurazione dai sali e dai microrganismi”. Sull’impiego di queste acque in viticoltura sono stati fatti studi approfonditi. Per esempio, si sono messi a confronto diversi portinnesti per capire quali si adattino meglio a differenti qualità delle acque e ne è emerso che quelli che gestiscono meglio la salinità in termini di fisiologia della pianta non necessariamente sono anche gli stessi che garantiscono la miglior composizione delle uve.
“Insomma – conclude Fait – prima di puntare su soluzioni altamente tecnologizzate e avveniristiche, bisogna sfruttare ciò che già si ha in mano: riciclare le acque e scegliere la combinazione giusta tra varietà e portinnesto va in questa direzione. A causa del cambiamento climatico e dell’uso di fertilizzanti, indispensabile ma talora non del tutto razionale, molti terreni stanno accumulando sali e sottoponendo le radici a stress osmotico. Questo è un problema generalizzato, non dei soli ambienti desertici”. Serve inoltre una serie sistematica di studi in campo che testi numerose varietà e portinnesti diversi a livelli differenti di qualità dell’acqua, un programma intensivo di ricerca che nel deserto israeliano può essere sviluppato “grazie” appunto alle condizioni estive stabili e senza precipitazioni: un laboratorio a cielo aperto.
Anche sulle forme di allevamento le sperimentazioni condotte nel deserto hanno fornito indicazioni di rilievo e fatto comprendere l’enorme importanza dell’aprire almeno parzialmente la vegetazione nello spazio interfilare, soprattutto in alcune fasi della maturazione, per ridurre scottature, sentori di cotto e ossidazioni nelle uve.
“Ponendo in condizioni aride su due vigneti sperimentali nel deserto del Negev, che differiscono tra loro di 2°C nella temperatura media stagionale, venti varietà a bacca rossa e dieci a bacca bianca, abbiamo rilevato una risposta migliore da parte delle varietà bianche all’incremento termico, principalmente perché esse hanno un ciclo di maturazione più breve e restano in pianta per un minor periodo di tempo. Gli effetti cumulativi di elevate temperature associate a stress termico sono molto più evidenti nelle varietà rosse. Detto ciò, la variabilità della risposta delle cultivar era significativa, a indicare che la genetica della vite può dare risposte importanti al cambio climatico se si è disposti a rinunciare all’utilizzo di varietà tradizionalmente legate a un territorio a favore di altre, a carattere più adattabile”, spiega Fait.
I conflitti generati dalla volontà di appropriarsi di (o di difendere) fonti di acqua dolce sono una realtà. “Israele per esempio – conclude Fait – in passato ha vissuto tensioni importanti col Libano in merito all’uso delle acque del fiume Giordano e le nostre politiche di riciclo delle acque reflue urbane e industriali hanno contribuito a risolvere il problema. Il programma di desalinizzazione delle acque marine è un altro modo per produrre acqua dolce da utilizzare nelle città e in agricoltura: sono 4 o 5 i desalinizzatori attivi sulle coste israeliane, e in questa direzione si sta lavorando anche con l’autorità palestinese”.
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